martedì 26 aprile 2022

25 APRILE: FESTA DELLA RESISTENZA O DELLA 'RESILIENZA'?

E’ davvero difficile proporre una riflessione costruttiva su una ricorrenza così importante, simbolica per un popolo, per il nostro popolo, quando tanti – forse troppi – concorrono ad un vociare che è senza senso perché si perde nel vuoto di una relazionalità povera e che dovrebbe invece ambire alla pienezza, alla vivacità, alla diffusività. E, in particolare, ad una sorta di sovranità condivisa nella gestione di una risorsa preziosa, forse la più preziosa tra tutte, che i famelici ‘ladri di opportunità di vita’ – al di là dell’abito che indossano e dei modi affettati che contraddistinguono il loro comportamento - conoscono bene e sulla quale speculano senso vergona alcuna: il tempo. Una relazionalità, quindi, che dovrebbe essere irrobustita dal contributo originale che ogni cittadina e ogni cittadino può dare. Se la partecipazione ha un senso essa stessa, ovviamente.
A ciò va aggiunto che la celebrazione di un evento dovrebbe seguire (o essere il ‘culmine’, sebbene programmato, rituale) ad una preparazione, ad un processo che si fa nel continuo scambio di contenuti (idee, concetti, argomenti) e nell’esercizio di altre pratiche quotidiane ispirate da valori. Valori che dovrebbero costituire i principi ispiratori di un modo di fare comunità, di stare insieme, di ‘riconoscere’ la ricchezza della diversità dell’altra e dell’altro. E, se ciò è vero, di fare politica, economia, società.
 Il paradigma relazionale al cui sviluppo la sociologia ha dato un determinante contributo e che sembra permeare oggi ogni ambito della conoscenza – dalla psicologia e psicoterapia all’antropologia, dalla meccanica quantistica all’informatica – mette in evidenza le interconnessioni che intratteniamo e che sono, in qualche modo, costitutive di ciò che siamo. A ciò si aggiunga la non poco significativa diffusione, in tutto il mondo occidentale, di espressioni sovrastrutturali che - radicandosi nell’insicurezza generale venutasi a determinare dal crollo dei grandi orizzonti di senso, delle ‘grandi narrazioni’, e dall’indebolimento delle millenarie istituzioni religiose – propugnano la consapevolezza della ‘non dualità’, dell’illusione di qualsivoglia separazione tra ognuno di noi e tutto ciò che ci circonda. Segno questo di quanto, con la globalizzazione, si siano innescati dei processi culturali e sociali di enorme portata con riferimento al diffondersi di concezioni spirituali che vengono dall’oriente (in particolar modo ci preme sottolineare qui l’influenza dell’India e della tradizione ‘advaita-vedanta’). Processi che, certamente, partono da lontano e che includono il contributo degli esponenti di quella borghesia pre-capitalismo di massa che, dell’oriente e delle sue tradizioni filosofico-religiose ne furono affascinati e – al ritorno nelle proprie terre natie – ne divennero degli alfieri.
Il considerarsi come parte di un ‘tutto’, di un mondo interconnesso, può essere vissuto come una grande opportunità, soprattutto per l’accesso all’informazione – in tutte le sue modalità – che dovrebbe consentirci di fare delle scelte, ossia di agire in maniera sempre più responsabile (si pensi, ad esempio, ai comportamenti legati alla salvaguardia dell’ambiente) e con contezza. Ma può rivelarsi anche una pericolosissima gabbia in carenza della summenzionata ‘pratica della riflessività’ e della ‘sovranità condivisa nella gestione del tempo’. Pericolosissima perché alcuni buoni ‘contenuti’ rischiano di perdersi nel vuoto della mancanza di comprensione (quest’ultima da intendersi come capacità di afferrare e valutare sul piano intellettivo), e del disinteresse affettivo-relazionale; mentre altri ‘contenuti’ si impongono acriticamente con la forza della propaganda pubblicitaria, generalmente manovrata da chi ha potere economico per farlo.
Ecco allora che nel giorno in cui dovremmo commemorare la liberazione dell'Italia dal nazifascismo, con la fine dell'occupazione nazista e la caduta del fascismo, abbiamo visto nelle piazze d’Italia (quella di Bologna, la più simbolica tra tutte), le bandiere della NATO e dell’Ucraina, due tristissime realtà che ci impongono – per mezzo di una classe dirigenziale e politica nostrana che non esiteremo a definire stolta se non ‘venduta’ - una guerra non voluta dalla gente comune, una guerra che pagheremo al prezzo di una dilagante indigenza e di una crisi economica dagli esiti nefasti. E, tutto ciò, su uno sfondo costituito da un contesto storico caratterizzato da una dittatura sanitaria che dura da due anni (che, per fortuna, sembra cominciare a vacillare); e, da un contesto socio-istituzionale dominato da una super-burocrazia sovranazionale – l’Unione Europea - che è il sub-centro decisionale (il vero centro, lo sappiamo bene, è altrove) di scelte che non di rado sono palesemente contro gli interessi della nostra collettività nazionale.
Da queste brevi considerazioni, e con l’ostinazione a voler rimanere costruttivi, dovrebbe emergere la seguente comune consegna, comune a tutti noi semplici cittadini: quella di prepararci al prossimo anno, al prossimo 25 aprile con l’obiettivo prioritario di recuperare il senso della resistenza, mettendo da parte il concetto e la prassi della resilienza (beceramente ridotta a ‘sopportazione’, a ‘rassegnazione’). Resistenza, quindi, contro lo strapotere di una potenza che dietro la maschera-struttura della NATO può portarci alla definitiva distruzione; resistenza contro l’élite di superburocrati sovranazionali e dei loro ‘compari’ nostrani eurinomani per i quali siamo solo numeri da allineare – quale che sia la modalità esecutiva – al piano dei conti dei famelici interessi che si nascondono dietro il PNRR. Un ‘piano’ che sembra sempre più configurarsi nettamente nei termini di un temibilissimo cavallo di Troia per la società e l’economia italiane.
Facciamolo, riscopriamo e facciamo resistenza prima di morire inondati dalla valanga di ignoranza e cinismo al potere.  

Gianluca Piscitelli
Presidente

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